Cristo presenza reale in mezzo a noi

venerdì 23 settembre 2011


Oggi, 43° anniversario della morte di Padre Pio, tutti ricordiamo la santità di questo fraticello e della maniera in cui ha vissuto la chiamata e la vocazione sacerdotale tant’è che ha anche vissuto l’incarnazione di Cristo stesso portando sul suo corpo la sofferenza di Cristo che gli ha fatto dono delle sofferenze della croce.  Tante cose ci sarebbero da dire e raccontare della sua vita ma la cosa che mi colpisce e che merita attenzione è un suo racconto su un fatto realmente accaduto che ci riporta al nostro modo di considerare Cristo presente nel Santo Tabernacolo. Quasi tutti ogni qualvolta entriamo in chiesa ci preoccupiamo di prostrarci, di baciare e porre la nostra attenzione esclusivamente alle statue ivi presenti (santi e/o della Vergine) trascurando in maniera totalitaria la presenza del vero padrone di casa, dell’Altissimo Onnipotente, del Re dei Re, presente in carne, sangue anima e divinità al quale gli stessi santi raffigurati nelle nostre statue, nella gloria divina adorano la presenza reale di Gesù Cristo. Quindi che ben venga la venerazione delle nostre statue ma unicamente ad imitazione ed ammirazione delle virtù e di quella che è stata la vita del santo e poter arrivare anche noi mortali ad uno stile di vita santo da portarci un giorno alla certezza di poter contemplare il Volto santo di Cristo Gesù. Il nostro sguardo quindi deve essere unicamente per il tabernacolo presenza viva e certa di Cristo Gesù.
Ecco uno spunto del racconto di Padre Pio su cui poter meditare e cambiare le nostre abitudini pagane. Buona lettura.

Quest'altro episodio venne raccontato da Padre Pio a Padre Anastasio. "Una sera, mentre, solo, ero in coro a pregare, sentii il fruscio di un abito e vidi un giovane frate trafficare all'altare maggiore, come se spolverasse i candelabri e sistemasse i portafiori. Convinto che a riordinare l'altare fosse fra Leone, poiché era l'ora della cena, mi accosto alla balaustra e gli dico: "Fra Leone, vai a cenare, non è tempo di spolverare e aggiustare l'altare". Ma una voce, che non era quella di Fra Leone mi risponde": "Non sono fra Leone", "e chi sei?", chiedo io. "Sono un vostro confratello che qui fece il noviziato. L'ubbidienza mi dette l'incarico di tenere pulito e ordinato l'altare maggiore durante l'anno di prova. Purtroppo più volte mancai di rispetto a Gesù sacramentato passando davanti all'altare senza riverire il Santissimo conservato nel tabernacolo. Per questa grave mancanza, sono ancora in Purgatorio. Ora il Signore, nella sua infinita bontà, mi manda da voi perché siate voi a stabilire fino a quando dovrò soffrire in quelle fiamme di amore. Mi raccomando..." - " Io credendo di essere generoso verso quell'anima sofferente, esclamai: "vi starai fino a domattina alla Messa conventuale". Quell'anima urlò: "Crudele! Poi cacciò un grido e spari". Quel grido lamento mi produsse una ferita al cuore che ho sentito e sentirò tutta la vita. Io che per delega divina avrei potuto mandare quell'anima immediatamente in Paradiso, la condannai a rimanere un'altra notte nelle fiamme del Purgatorio".

Adorazione

giovedì 15 settembre 2011

in costruzione

Lettera di un prete diventato barbone


“ …esco dalla mia baracca mendicante. Sono io, il prete accattone, di cui ti ha parlato suor Teresa, uno di quelli che raccolgono i cartoni e mangiano i rifiuti dei ristoranti. Oggi è giornata di sole e mi sento in vena di scriverti. Sopra la mia testa, sull’autostrada, passano le auto per Ventimiglia. Mi piace starmene al sole di novembre per intiepidirmi le ossa. Sì, mi va di scriverti, anche se ti farò del male'.



NON PUNTARE MAI IL DITO

Per quanto discutibile, una scelta del genere, per le motivazioni che l’hanno determinata fa senza dubbio riflettere. E che ciò sia avvenuto lo dimostrano tra l’altro due reazioni di suore, di cui una di clausura.
La tentazione di “puntare il dito” contro gli altri, soprattutto quando i loro comportamenti e le loro scelte non coincidono con i nostri criteri, è sempre in agguato in ognuno di noi. Il più delle volte ciò avviene senza conoscere le persone, le loro esperienze, spesso dolorose, e le motivazioni che le hanno spinte a fare certe scelte per quanto anormale. Ma se si ha la pazienza di ascoltare, ci si accorge che al di là di tutto c’è sempre una persona con i suoi problemi, le sue sofferenze e incomprensioni: allora, anziché puntare il dito, in atteggiamento di accusa, per non dire di condanna, sarebbe meglio riconoscere che nessuno ha il diritto di farlo, poiché nessuno è senza colpa, come dice Gesù nel Vangelo, e quindi autorizzato a scagliare per primo la pietra.
Per illustrare meglio il senso di queste affermazioni, riportiamo qui la lettera di un prete che ha scelto di vivere come “barbone”, e le reazioni a questa lettera di due religiose, di cui una claustrale.


DA BARBONE TRA I BARBONI   

Ecco  anzitutto la lettera del prete barbone.
“ …esco dalla mia baracca mendicante. Sono io, il prete accattone, di cui ti ha parlato suor Teresa, uno di quelli che raccolgono i cartoni e mangiano i rifiuti dei ristoranti.
Oggi è giornata di sole e mi sento in vena di scriverti. Sopra la mia testa, sull’autostrada, passano le auto per Ventimiglia. Mi piace starmene al sole di novembre per intiepidirmi le ossa.
Sì, mi va di scriverti, anche se ti farò del male.
La mia vita di uomo e di sacerdote è stata una vita bruciata velocemente, una vita forse sprecata, forse senza senso. E tu vuoi sapere perché? Me lo domando sovente anch’io, in questa mia “casa” sotto il ponte dell’autostrada, dove ho stabilito la mia fissa dimora tra i cartoni, qualche lamiera, un materasso sulla branda scassata, un bidone di acqua, poche altre cose e solo un libro: “Le confessioni” di un grande sbandato, Sant’Agostino. Me lo domando quando mi alzo e quando vado a dormire su questo materasso. Mi rispondo che la mia vita non ha avuto senso perché nessuno mi ha insegnato ad amare a pieni polmoni. Nessuno mi ha insegnato a spalancare il cuore nel voler bene senza paura. Nessuno mai mi ha detto: lascia spazio ai tuoi sentimenti, non soffocare le tue affettività, bevi la vita a piene sorsate.
Ero un uomo nato per essere equilibrato e libero nell’effetto verso tutti, specialmente verso gli alberi, gli animali, i bambini, i sofferenti. Avevo scelto la vita di sacerdote, per essere maggiormente me stesso nell’amore, un po’ come Dio. Ma i superiori mi dicevano sempre: “Attento figliolo, attento ai sentimenti”.
L’amore era la mia fede, era ciò in cui credevo. Ho provato a voler bene, sinceramente, senza ambiguità, ma non sono stato incoraggiato, non sono stato capito. Ogni volta che esprimevo la mia identità, che comunicavo non solo a parole – ma anche con il colore dei sentimenti – ogni volta che cercavo di instaurare una relazione profonda con altri e con i loro problemi, con gli amici, con le famiglie, mi si diceva: “Attento figliolo”.
Ma attento a che cosa? Non riuscivo a condividere quello strano modo di voler bene, un po’ formale, un po’ mestiere, sempre timoroso, sempre così distaccato. Un voler bene in difesa e con lo scudo imbracciato. Un amore privo di semplicità, di umanità, di immediatezza e di trasparenza.
Ho avuto paura di amare, di inaridire e ho lasciato, con un colpo di testa, ma a mente lucida, ho smesso di fare il viceparroco ed eccomi qua: nel villino del prete accattone, via dei cartoni, numero uno.
Ho deciso di amare i barboni, i mendicanti anche se puzzano e anche se hanno i pidocchi: almeno con loro potrò vivere sentimenti veri. Ho deciso di vivere come loro e di morire come loro, pagando il prezzo dell’amore puro.
Cosa faccio durante il giorno? Vado in cerca dei barboni che stanno peggio di me e sto con la loro solitudine e i loro discorsi pieni di illusioni. Assieme a qualcuno di loro cerco di mangiare – senza però rubare dalle bancarelle – mi metto a raccogliere carta e cartoni per le strade, specialmente durante la notte, quando si spengono le luci delle finestre e ci si sente soli nelle strade diventate nostre e di qualche cane randagio. I pochi soldi che ricavo mi servono per sopravvivere e per regalare ai miei amici qualche sigaretta o un bicchiere di vino.
Molte volte mi domando: “È questa la mia evangelizzazione?”. Non so, mi sembra che Dio sia con me. L’altro giorno avevo fame più del solito e sono andato a chiedere carità dalle suore della scuola materna. Quel “materna” mi incoraggiava, mi ricordava la bontà e la comprensione della mamma. La suora portinaia mi ha squadrato da dietro il cancello poi ha tagliato corto: “La superiora non c’è”.
Ho capito che mi considerava il solito rompiscatole. Mi ha dato comunque un panino, dicendomi che era venerdì e che anche le suore facevano digiuno.
Mi sono chiesto: “ Perché devo fare digiuno anch’io?”. Mentre divoravo il panino, pensavo con dispiacere a quella brutta frase di Voltaire: “Si uniscono senza conoscersi, vivono senza amarsi, muoiono senza compiangersi”. Spero proprio che non sia così.
Mi piace essere accattone. Mi piace perché incontro Dio a ogni passo. Quando la mattina mi ritrovo vivo, nonostante il freddo e l’umido della baracca, quando mi incammino a cercare gli emarginati, lo incontro sempre nelle loro storie, nella loro fede, nelle loro bestemmie.
Vedo Dio quando una bambina mi viene incontro, mandata dalla mamma e mi offre una moneta, e allora mi sento nella pace. Dio l’ho incontrato una notte, quando ho assistito alla morte di un mio amico, sugli scalini del duomo, piangendo, ho affidato a Dio la sua morte e la sua anima. Dopo avergli perdonato tutti i peccati. L’ho incontrato Dio, quando Tonino, l’ubriaco perenne cantava stonato: “Noi vogliam Dio”. In realtà non cantava forse l’unica verità valida per tutti gli uomini?
Mi presenterò a Dio così, come sono, un accattone in cerca di amore, gli tenderò la mano e gli chiederò con semplicità di farmi l’elemosina del suo Paradiso. Forse non avrò la stola, ma avrò la barba lunga e tanta, tanta fame. Sono certo che mi capirà.
Ti capisco, questo forse non è il modo di vivere il mio sacerdozio. Però mi sembra di vivere come Gesù prima che consumasse il sacrificio. Anche lui non diceva Messa quando mangiava con i pubblicani e con le prostitute, eppure era un sacerdote con loro. E credo che facesse così, perché loro, e non i farisei, gli permettevano di vivere il sacerdozio fondamentale che è l’amore, la vita dei sentimenti, che sono sempre grazia.
Ti prego di non mandarmi niente.
Sono un prete accattone, ma non ho bisogno quasi di niente. Vorrei soltanto un regalo. Che mi dicessi se i miei confratelli nel sacerdozio mi amano ancora, se mi pensano, se per loro sono ancora vivo. Se poi non mi vuoi rispondere, non sentirti in imbarazzo caro amico mio”.


ECHI FIN DIETRO ALLA CLAUSURA

La lettera di questo sacerdote ha suscitato una vasta eco. Chi l’ha letta ne ha riportato una profonda impressione, come nel caso di queste due suore. Di cui una di clausura.
La prima a scrive: “Qualche giorno fa ho letto l’esperienza del sacerdote mendicante che vive sotto il ponte dell’autostrada. Ne sono rimasta molto impressionata, ho sofferto per lui e mi piacerebbe tanto che quel sacerdote sapesse che con questa sua lettera ha fatto un gran bene a me e a tante altre persone. Quando lei l’incontrerà, gli dica la mia e nostra comprensione, gli dica della nostra simpatia – e perché no? – del nostro sincero amore.
Come religiosa gli chiedo perdono per quella comunità di religiose della scuola materna, che gli hanno dato severità e indifferenza e quel panino senza cuore…In questi giorni celebro venticinque anni di vita religiosa. La fedeltà di quel sacerdote mendicante mi invita a consacrarmi con maggiore radicalità a Cristo sofferente nel prossimo specialmente nei membri della mia comunità”.
L’altra lettera viene da una suora di clausura e dice così: “Ovunque tu sia, ti raggiunga il mio amore di sorella, come tu hai raggiunto nel silenzio della mia clausura. Sono grata per averci fatto conoscere la tua lettera. Mi è penetrata dentro ed è stata di vantaggio nell’anima mia! Conosco il tuo recapito: via dei cartoni! Non so il tuo nome, ma colui che è sempre con te in quella via mi ha suggerito di chiamarti “Emmanuele”, perché tu hai lo stesso suo volto.
Eccomi a te, Emmanuele, siamo vicini di casa, avendo un recapito comune che nessuno può mandarci via: il “Cuore di Dio”. “All’ombra delle tue ali troviamo rifugio”.
Sappi che non sei solo in via dei cartoni. Se ormai entrato nel cuore di tante, tante sorelle claustrali trasmettendo la tua stupenda lettera.
È stata letta in comunità da una sorella, ha commosso tutte e quella che leggeva non riusciva ad andare avanti. Dio ha raccolto certamente le nostre lacrime, e ti ha guidato con infinita “tenerezza”. Sono certa, che pur vivendo in tanta solitudine e sofferenza, tu stai sperimentando la sua bontà e tenerezza, la sua viva presenza dentro di te.
Ti saluto, Emmanuele, fratello mio! Non so cosa penserai di queste mie righe dai pensieri confusi, disordinati, ma così sono le lettere di chi ama dal di dentro, con un amore che sa di eternità! So però che la leggerai con lo stesso amore con cui te l’ho scritta, dal silenzio della mia cella, e a notte inoltrata. Forse vorrai sapere chi sono: sono figlia di Dio, come te! E, negli anni lontani, una sbandata, come te, come il grande Agostino. E anch’io, come te, quando busserò alla “porta del Regno” stenderò le mani a Colui che ama farsi chiamare il Padre e gli chiederò il suo regno come un’elemosina. Sì, come te e con te, Emmanuele!”


La migliore maestra

mercoledì 14 settembre 2011


Nel paese dove insegnava era considerata la maestra più severa della scuola.
Come la maggior parte delle maestre dichiarava sempre di non avere preferenze, ma non era proprio così… in prima fila c’era un’alunna malvestita, poco pulita e piuttosto distratta. La maestra la riprendeva spesso, correggeva con la penna rossa tutti i suoi compiti e li marcava con uno zero.
Un giorno, leggendo il curriculum di quell’alunna, trovò scritto dalla maestra del primo anno: “È un’ottima alunna, studia con impegno e dedizione: è un piacere averla vicino”. La maestra del secondo anno aveva scritto: “È un’eccellente studentessa e si comporta molto bene coi suoi compagni, ma ultimamente appare preoccupata perché sua madre ha una grave malattia”.
Quella del terzo: “La madre dell’alunna è morta, è stato molto duro per lei. Lei cerca di fare molti sforzi, ma la situazione è pesante e difficile. Bisogna trovare il modo di aiutarla”.
La maestra del quarto: “L’alunna rimane spesso indietro rispetto ai suoi compagni e non mostra interesse per lo studio. In classe spesso si addormenta”.
Finalmente l’attuale maestra capì il problema della bambina e ci rimase male per non aver indagato prima sulle cause.
Quando arrivò la fine dell’anno scolastico si sentì ancora peggio quando aprì i regali degli alunni.
Quello della bambina orfana era avvolto in un vecchio sacchetto e la maestra provò un enorme imbarazzo quando dovette aprirlo di fronte a tutti.
Trovò una vecchia bottiglietta di profumo, se ne mise due gocce e a quel punto gli alunni scoppiarono in una risata generale.
Alla fine della giornata, prima di uscire, la bambina si rivolse alla maestra: “Signorina, oggi profuma coma profumava la mia mamma”. Da quel giorno la maestra decise di mettere in secondo piano la matematica, la storia e la geografia e si dedicò ad educare i suoi alunni, ponendo particolare attenzione a quelli che presentavano maggiori difficoltà. Quell’anno la bambina orfana fece passi da gigante e divenne una delle alunne migliori.
Tre anni dopo la maestra ricevette una lettera della ex alunna in cui le diceva che era stata una grande maestra.
Poi ne ricevette un’altra dopo cinque anni nella quale le raccontava che si era diplomata col massimo dei voti e che lei era stata una bravissima maestra.
E così fu fino alla laurea, ripetendole sempre che era stata la miglior maestra della sua vita.
Una delle ultime lettere era firmata “Dottoressa”; era l’invito al suo matrimonio. La ragazza desiderava che alla cerimonia, la sua adorata maestra occupasse il posto di sua madre.


Ognuno di noi può essere per gli altri
motivo di speranza e di gioia,
basta saper vedere le necessità dei fratelli,
ma per fare questo occorre
saper guardare “oltre” se stessi
e aprire il cuore per accogliere
più che le mani per afferrare…